Nella cultura occidentale la pratica di commentare i testi affonda le sue radici sin dalle origini stesse della creazione letteraria. I poemi omerici, che nel corso del tempo assunsero il ruolo di forgiare l’identità panellenica, furono recitati in vario modo in occasioni celebrative e in diversi contesti socio-culturali della Grecia arcaica e classica (VIII-IV sec. a.C.): è verosimile che contestualmente all’attività professionale dei rapsodi si sviluppassero prime forme di esegesi, ad opera degli stessi rapsodi, che condussero ad associare la performance recitativa con quella ermeneutica: l’interpretazione nacque nell’ambito della poesia stessa.

La distanza vieppiù maggiore tra il mondo culturale e linguistico dell’epica e quello dei suoi fruitori accrebbe proporzionalmente il fabbisogno di esegesi. Semplificando un processo molto più complesso, si può dire che la prima età ellenistica (III-II sec. a. C) – la grande stagione di ripensamento del patrimonio letterario greco – segnò il fiorire di una sistematica riflessione di natura tecnica sulla mole di materiale ereditato dai secoli precedenti. Le nuove figure di intellettuali, operosi ormai in confini dilatati e in un contesto politico e socio-culturale profondamente mutato, intrapresero un’intensa attività di collezione e selezione di quel patrimonio, e avvalendosi degli strumenti di nuove discipline tecniche (filologia, grammatica, lessicografia etc.) si dedicarono, con notevole profondità di analisi e finezza intellettuale, a una vasta e sistematica produzione di testi ermeneutici. D’altro canto non venne meno, ovviamente, la produzione letteraria, impregnata ormai di filologia e dottrina, in un circolo “erudito” in cui attività creativa e riflessione tecnica si influenzano e dialogano a vicenda, e in cui spesso convivono nella stessa personalità le due forme di approccio al sapere: basti pensare ai più celebri poeti filologi, Callimaco e Apollonio Rodio, noti anche a chi non abbia dimestichezza con la letteratura greca, e alla sovente citata espressione di Strabone a proposito del poeta Filita di Cos, ποιητὴς ἅμα καὶ κριτικός (Strab. 14,2,19).

L’epicentro geografico di questa nuova fase che caratterizzò la cultura greca era la neonata capitale del regno d’Egitto, Alessandria. L’attività scientifica, erudita e letteraria ruotava attorno all’istituzione del Museo e della sua imponente biblioteca, annessi al Palazzo Reale. L’intellettuale erudito, il poeta filologo, ormai svincolato da legami con la polis e calato in un contesto cosmopolita, ma profondamente elitario e autoreferenziale, era al servizio del nuovo potere assoluto dei sovrani ellenistici, che con la politica culturale e il mecenatismo desiderava – tra le altre cose – porsi come il legittimo erede della tradizione greca: un’eredità che sul piano metodologico era debitrice in larga parte ad Aristotele, sia per la concezione stessa di una Biblioteca organizzata, sia per l’approccio epistemologico di carattere enciclopedico.

Per quanto concerne l’attività esegetica in senso stretto, il prodotto più caratteristico di questo periodo è l’hypomnema, commentario sistematico e continuo, trascritto in volumina, nel senso letterale di rotoli papiracei, separati dal testo. A partire almeno dal I sec. a. C gli stessi poeti di età ellenistica, tra cui Callimaco e Teocrito saranno oggetto, a loro volta, di esegesi (vd. 2.2; 2.3). Attraverso generazioni di studiosi, discepoli e continuatori dei primi studiosi alessandrini, la stagione creativa della filologia e dell’ermeneutica proseguì ininterrotta fino all’età augustea, e poi, ancora per molti secoli, in età imperiale, laddove l’epicentro culturale divenne Roma. In particolare, dal II secolo d. C. l’attività erudita si esplica nel lavoro di conservazione, epitomazione, rifusione del materiale precedente che, gradatamente, assunse la fisionomia in cui ci è pervenuto nei corpora miscellanei bizantini, di fatto la nostra fonte primaria di conoscenza della letteratura esegetica di età ellenistico-romana.

Con la tardo-antichità le nostre conoscenze sulla tipologia libraria e  contenutistica dell’ermeneutica ai testi letterari stricto sensu si fanno nebulose, in quanto il materiale a disposizione non consente inferenze certe. Il mutamento del supporto librario, dalla forma di rotolo a quella di codice, rappresenta senza dubbio uno snodo fondamentale, non solo per la sorte dei testi dell’antichità greco-latina in genere, ma anche, nello specifico del nostro discorso, per la disposizione del materiale esegetico: i margini di un codice si potevano prestare più agevolmente ad accogliere note di vario tipo. Tuttavia non ci sono pervenuti manoscritti di età tardo-antica corredati da un sistematico apparato di note a margine o in fondo a sezioni di testo. Né le frammentarie testimonianze papiracee consentono di trarre conclusioni certe (vd.  anche 1.2). Non sarà inopportuno riportare qui uno dei passi letterari più citati su questo importante fenomeno tecnico-culturale, l’elogio che il retore Temistio, con enfasi coerente con il genere letterario e i tempi, dedicò alla fondazione della Biblioteca Imperiale di Costantinopoli alla metà del IV sec. d. C. ad opera dell’imperatore Costanzo II, figlio di Costantino:

Ritengo dunque che l’anima di un uomo saggio sia la sua saggezza, e l’intelletto, e la parola, e che sepolcri di queste anime siano i libri e gli scritti nei quali sono deposti i loro resti come in arche. Ebbene egli ordina di riaccendere queste arche, sgretolatesi a causa della lunga incuria come edifici nello scrigno della memoria, e a rischio di svanire e spegnersi del tutto e di spegnere con sé le anime ivi giacenti, e dispone un sovrintendente all’impresa, e fornisce i mezzi per l’attività. E fanno per voi questo lavoro non fabbri, falegnami, muratori, ma gli artefici dell’arte di Cadmo e Palamede, i quali sono in grado di trasferire l’intelletto da un corpo putrefatto a uno solido e nuovo. E fra poco rivivrà per voi pubblicamente il sapientissimo Platone, rivivrà Aristotele e il retore Peanio (sc. Demostene), e il figlio di Teodoro (sc. Isocrate) e quello di Oloro (sc. Tucidide). Ma di questi uomini, se anche i simulacri pubblici erano in pericolo, almeno quelli privati – presso i singoli – anche senza presidio della legge trovano protezione e salvezza, ed è sufficiente a preservarli la sovrabbondanza stessa della virtù. Quanti invece sono loro seguaci, ma le loro opere non sono sufficienti a se stesse per sopravvivere, la previdenza dell’imperatore li costringe, da mortali che sono, a farli immortali: molti interpreti e custodi del tempio di Omero, molti cultori di Esiodo, e già Crisippo stesso, e Zenone, e Cleante, e gli interi cori del Liceo e dell’Accademia, e per dirla in breve, una torma innumerevole di antica sapienza, non volgare, né che circola in mezzo, ma rara e riposta, labile ormai e sbiadita nel tempo, sepolta nell’ombra, egli eccita e ridesta come dall’Ade, e vi erige altrettali – e financo migliori – statue delle Muse. (Them. or. 4, 59 c-d)

La testimonianza, oltre a descrivere icasticamente l’operazione del cambio di supporto (rotolo papiraceo – codice, per lo più pergamenaceo) e a introdurci nella neonata capitale dell’Impero Romano d’Oriente, che si avviava a diventare il nuovo centro di conservazione, produzione, riflessione di cultura greca per oltre un millennio, ci fornisce anche una preziosa testimonianza sulle sorti della letteratura erudita: i grandi classici (Demostene, Isocrate, etc.), potremmo dire i best sellers, sono copiosamente letti e esemplati nelle biblioteche private; la letteratura tecnica, i filosofi minori e la letteratura erudita esegetica (custodi del tempio di Omero…) rischia di svanire (vd. 2.1; 2.2).