Descrizione materiale complessiva dell’Ambr. C 222 inf. (Constantinopoli, ca. 1180-1186)

 

Datazione e origine. Per lungo tempo il manoscritto ambrosiano è stato datato tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. Solo le indagini condotte nell’ultimo ventennio da Carlo Maria Mazzucchi hanno permesso di rivedere questa cronologia, collocando la realizzazione di questo importante esemplare oltre un secolo prima, alla fine del secolo XII (ca. 1180-1186). Lo studioso ha trascritto e interpretato le annotazioni lasciate dal copista principale, affiancando questa analisi allo studio delle caratteristiche materiali e grafiche del volume. È così emerso il profilo del copista-possessore del codice: laico colto e studioso instancabile, di nome Costantino, come sembra suggerire una sua nota autografa apposta sopra l’ultimo epigramma figurato, Πέλεκυς, al f. 362v. Era allievo di Giovanni Tzetzes e di Giovanni Camatero, vicino all’ambiente della cancelleria imperiale e probabilmente attivo nella scuola dei Santi Apostoli, nei pressi del monastero del Pantokrator. Grazie all’identificazione della sua mano nel documento relativo al σέκρετον τῆς θαλάσσης del 1195, è anche noto che era un funzionario del Dipartimento del Mare (Patmos II, nr. 56; Mazzucchi 2012, 427 n. 61 e Mazzucchi 2019, 444). Ne risulta un quadro chiaro e coerente, che colloca il manoscritto nel suo contesto autentico: la vivace Costantinopoli della fine del XII secolo.

 

Descrizione esterna. Il manoscritto è composto da 45 fascicoli, ma il primo è un ternione di restauro, come mostrano la diversa natura del materiale cartaceo e la scrittura recenziore. Esso è mutilo, privo dell’ultimo foglio, e realizzato con fogli di carta diversa dal resto del codice. Questo primo fascicolo reca la segnatura ιβ (= “12”) al f. 3r, indicando così la perdita dei primi undici fascicoli. Il volume si apre con i Sette contro Tebe di Eschilo, sebbene l’inizio sia mancante; sulla base della struttura del manoscritto e del confronto con altri codici simili, è molto probabile che nelle pagine perdute fossero trascritti Agamennone, Eumenidi e Prometeo: in tal caso l’Ambrosiano costituirebbe un importante testimone della cosiddetta “pentade” eschilea (Prometeo, Sette a Tebe, Persiani, Agamennone, Eumenidi). La tipologia di fascicolo preponderante è il quaternione, con alcune eccezioni: il ternione del fascicolo 3, i quinioni dei fascicoli 6, 8, 9, 17 e 35 e il senione del fascicolo 7. Come si vedrà tra poco, la scelta della tipologia riflette spesso l’attività dei due copisti, con il secondo che predilige formati diversi dal quaternione. Tutti i fascicoli sono segnati in numeri greci dalla prima mano da ιβ (f. 3r) a νε (f. 355r) al centro del margine inferiore del primo foglio recto, con alcune eccezioni dovute a perdite di bifolii o a omissioni accidentali. Nel fascicolo 4, ad esempio, il primo foglio era già reciso al momento della numerazione, così che la segnatura fu apposta sul foglio successivo.

La disposizione del testo, vergato in inchiostro marrone, si articola essenzialmente in due modalità. La prima, più frequente nella mano del copista principale – Costantino – presenta porzioni di testo distribuite in due o tre colonne, di ampiezza e forma variabili, spesso irregolari e non sempre proporzionate tra loro, con intercolumni di larghezza diseguale; a queste sezioni fanno seguito ampi blocchi di commento copiati a piena pagina. Non essendovi rigatura, e tenuto conto dell’altezza della pagina, la scrittura tende a scivolare verso il basso nelle prime righe e a risalire nella seconda metà delle ultime, complice anche la posizione scomoda del copista, che probabilmente lavorava con il foglio poggiato sulle ginocchia, come ha suggerito Mazzucchi (2003, 266). La seconda modalità, tipica invece del copista professionista, consiste nella trascrizione del testo su una sola colonna, solitamente decentrata verso il margine interno, con scolii disposti a cornice e arricchiti da glosse interlineari. In questa sezione, la scrittura risulta complessivamente più regolare, conferendo al manoscritto un aspetto ordinato e una leggibilità superiore.

Il codice è, dunque, frutto della collaborazione di due copisti coevi. La mano principale, più corsiva, coincide con quella del redattore della raccolta, Costantino, e si occupa della trascrizione e annotazione della maggior parte dei fogli, incluse sezioni di testi minori ed excerpta di carattere grammaticale, lessicografico e retorico, inseriti in fogli inizialmente lasciati in bianco (ff. 13rv, 16r-18v, 40r-42v, 81v, 105v, 108v, 180v, 206v-212v, 215r-217v, 218rv, 253r-257v, 334v-339r). Il primo copista procede di norma con quaternioni, introducendo occasionalmente ternioni per chiudere sezioni particolari, come la conclusione dei Sette contro Tebe (ff. 118-123) o le Olimpiche di Pindaro (ff. 204-209), seguiti da fascicoli destinati a estratti vari (ff. 210-217). Questa mano, che adopera un inchiostro marrone di intensità variabile, modifica il proprio aspetto in base allo spazio disponibile: in alcuni fogli la scrittura è minuta e molto serrata, mentre in altri i caratteri sono più grandi e la disposizione più ariosa.

La seconda mano, più regolare e accurata, appartiene a un copista di professione ed è responsabile della copia di Aristofane con il commento di Giovanni Tzetzes (ff. 43r-91v), con il testo vergato su quinioni con un senione iniziale (ff. 52-63), e di altri testi come Teocrito e i Carmina figurata, per i quali ricorre nuovamente ai quaternioni. Questo scriba impiega un inchiostro bruno simile a quello della mano precedente ma di intensità variabile, mentre l’inchiostro porpora serve per titoli, iniziali, glosse interlineari e per evidenziare l’inizio di ogni scolio. L’uso della porpora è limitato ai ff. 43r-70v, 77r-82v e 339v-362v, con brevi sezioni occasionalmente segnate in rosso.

Una caratteristica condivisa da entrambi i copisti è la scelta di lasciare fogli bianchi per delimitare i blocchi testuali, sia all’interno dei fascicoli sia all’inizio di nuove sezioni; a questa logica risponde anche la decorazione, minima e limitata all’uso di inchiostri distintivi.

Oltre ai due copisti di XII secolo, una terza mano, attribuita al μάγιστρος Giovanni Kanaboutzes (Anonimo 11 Harlfinger) ha scritto i fogli di guardia iniziali con il pinax a inchiostro carminio (f. IIr), e ha completato parzialmente i primi due fogli (ff. 1r-2v) integrando il testo mancante dei Sette contro Tebe di Eschilo.

Oggi il manoscritto è conservato in una legatura in cuoio verde, realizzata a Grottaferrata nel 1961, che ha sostituito la copertura precedente, probabilmente del restauro quattrocentesco ascrivibile a Giorgio Merula. Quest’ultima era descritta da Martini ― Bassi (1906, 990) come «tabellis ligneis corio, nunc partim, tectis compactus».